Posts contrassegnato dai tag ‘cinema’

La riforma varata dal Governo cambierà ancora una volta la struttura del cinema pubblico a Cinecittà. Per tornare all’antico? Quasi. Ecco cosa nasconde veramente la cineteca più famosa d’Italia.

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"Lost", "Incontri ravvicinati" e "E.T.": è tutto questo ma è anche completamente diverso il primo film della strana coppia Spielberg - Abrams

Il nuovo film prodotto dal regista di E.T. e diretto dall’autore della serie “Lost” uscirà in Italia solo il 9 settembre. È molto bello. Negli Usa però non è andato bene. Anche ad Hollywood è sempre più difficile catturare il pubblico dei ragazzi. (altro…)

Tanto rumore per nulla. Il terzo episodio della serie live action sui Transformers diretta da Michael Bay e prodotta da Steven Spielberg, in uscita questa settimana in tutta Italia (altro…)

 

Aprirei un club con questo motto. Chi è d’accordo alzi la mano.

Anteprima romana del terzo episodio di Transformer. Due ore e mezzo di rumori, effetti speciali da cartone animato e una sceneggiatura con gli stessi buchi di un groviera svizzero. Per tutto il tempo ti domandi perché lei, bellissima, (altro…)

Il sistema cinematografico piemontese è un laboratorio

Rubini, Soldini, Volo, Genovese, Vanzina, Ponti, Calopresti, Emmer, Manuli, Avati, Bruni Tedeschi, Martinelli, Ferrara, Lizzani, Gaglianone, Bonivento, Zaccaro,  Montaldo, Sorrentino, Base, Torrini, Infascelli, Patierno, Ferrario, Capotondi, Grimaldi, Capitani, Marino, Argento, Capuano, Molaioli, Faenza, Venier, Bonivento, Carpi, Lucini, De Seta, Archibugi, Giordana, Tognazzi, Amurri, Lucchetti, Segre, Martone, Chiambretti, Samperi, Chiesa, Pozzessere, Corsicato, Comencini, Haber, Chiambretti e ovviamente Mazzacurati (da cui il titolo di questa rubrica) (altro…)

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Boris? Il Film.

Pubblicato: 27 febbraio 2011 in cinema
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La vera grinta

Pubblicato: 2 febbraio 2011 in cinema
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The True Grit

Film molto bello, di destra, intimamente e sfacciatamente repubblicano, “Il grinta” dei fratelli Coen ha già conquistato il pubblico Usa: 140 milioni di dollari di incasso ad oggi e dieci nomination agli Oscar, comprese quelle più importanti: miglior film, miglior regia, migliore attore, migliore sceneggiatura, e migliore attrice non protagonista per la splendida interpretazione della quattordicenne Hailee Steinfeld. (altro…)

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Una cattiva risposta ad una buona domanda. Il nuovo film diretto da Clint Eastwood, “Hereafter” (“L’aldilà”), uscito nelle sale italiane il 5 gennaio, esplora il mistero della morte con un approccio che suscita più di un motivo di perplessità. (altro…)

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Difficile scrivere una cosa così ma è necessario guardare in faccia la realtà. Il cinema non è un mestiere per vecchi. Viviamo in un momento di trasformazioni che sembrano solo tecnologiche ma che invece sono anche culturali e che quindi hanno conseguenze di tipo sociologico. “360°”, la nuova parola d’ordine di produttori e autori per contenuti rigorosamente crossmediali e multipiattaforma, impone di muovere la testa in modo acrobatico ed elastico. Un’attitudine difficile per coloro che hanno problemi di cervicale e di artrosi. La generazione dei padri e dei nonni deve fare un passo indietro. Come disse una volta un caro amico, padre di molti figli: «Il nostro primo dovere è di togliere le mani. Di lasciare che le cose accadano». E la prima delle “cose” che devono accadere è proprio il ricambio generazionale. Non se la prendano amici e colleghi che lavorano nel mondo del cinema ma è ora di alzarsi da tavola. Nelle proteste che si levano periodicamente per i tagli ai finanziamenti pubblici al cinema, c’è un dato che fa sempre una certa impressione: l’età dei registi che firmano le petizioni o gli editoriali sui quotidiani. Difficile trovarne uno che abbia meno di sessant’anni. I vecchi sono conservativi per istinto. La vita corre via e ogni mattina ti guardi allo specchio e speri che il tempo si fermi. Per i giovani, invece, le cose devono succedere. Hanno fretta di crescere e di sperimentare. Soprattutto hanno voglia di cambiare. I vecchi parlano di morte del cinema. Dicono che il linguaggio è cambiato e che il cinema non esiste più. Un odioso desiderio di portarsi l’arte nella tomba. Sto leggendo le bozze del romanzo di un ventinovenne aspirante filmaker, Paolo Boriani. Ogni capitolo è dedicato a un film. Le immagini evocate si intersecano in modo inestricabile alla quotidianità di tipo autobiografico di questo giovane milanese fra genitori, musica, amici, mostre di design e performance di nuovi artisti. Interessante. Magnetico. I giovani fanno così: si avvicinano al cinema con lo stupore della “prima volta”. Si mettono in fila davanti alle sale e discutono di come fare il cinema del prossimo secolo. Fra poco inizieranno le battaglie per il rinnovo delle cariche sociali ai vertici dei principali festival italiani, Roma e Venezia, e, subito dopo, di Cinecittà. Si tratterà di vere e proprie lotte senza esclusioni di colpi. Il tema vero però rimarrà sullo sfondo. I contendenti infatti viaggiano allegramente verso i sessanta, i settanta e, qualcuno, anche verso gli ottanta. Ad una conferenza stampa per happy few a Venezia, uno degli sponsor aveva pensato bene di regalare una confezione di pomata antiage. Contro le zampe di gallina e le occhiaie. Come dargli torto. In una sala cinematografica per un’anteprima riservata ai giornalisti, mentre i ragazzini e le ragazzine dei magazine online e i giovani parvenu della critica cinematografica vociavano allegramente di un regista o di un film, uno dei vecchi soloni del cinema è sbottato: «Ma chi si credono di essere questi sbarbatelli!». Non credono di essere, verrebbe voglia di rispondere, ma essi sono, sono veramente il futuro del cinema. Al recente Mipcom di Cannes c’era uno che di cinema se ne intende, Jon Feltheimer, il capo indiscusso del successo di Lionsgate (centinaia di milioni di spettatori ovunque, dieci Oscar negli ultimi dieci anni e serie tv di successo planetario come Mad Men). «La mia visione per il futuro di cinema e tv ha una sola parola d’ordine» – ha detto a mille addetti ai lavori provenienti da tutto il mondo -: «Il futuro è cambiare». Cambiare. Il cinema di oggi non è un mestiere per vecchi. Ma forse non lo è mai stato. Chi si ricorda quanti anni aveva Fellini quando vinse la Palma d’Oro con La dolce vita e quanti anni aveva Rossellini quando girò Roma città aperta? Avevano entrambi solo 40 anni (e allora sembravano già molti). Citizen Kane, il più bel film della storia del cinema, venne girato da Orson Welles quando questi aveva 25 anni.


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A Venezia 67 si è parlato anche del rapporto che Mr. Titanus, al secolo Goffredo Lombardo, ebbe con la Chiesa. Uno strano festival quello di quest’anno. Il presidente della Biennale l’ha definita la Mostra del “Buco”.
L’ultimo Gattopardo 
Gustavo Lombardo fu il pioniere del sistema cinematografico italiano. A soli 19 anni, nel 1904, costituì la sua prima società di noleggio. Sposò l’attrice italiana più bella del periodo del muto, Leda Gys e, nel 1928, fondò la Titanus, la società di produzione e distribuzione destinata a segnare tutta la storia del cinema italiano. Il figlio, Goffredo Lombardo, non voleva fare il cinema, racconta il premio Oscar Giuseppe Tornatore nel documentario L’ultimo gattopardo, prodotto da Medusa e presentato in anteprima a Venezia. Però, alla fine, ne rimase coinvolto e divenne il produttore cinematografico più importante della storia del cinema italiano del dopoguerra. Amante della vita e della pesca sportiva in mare aperto, una volta rischiò addirittura di essere ucciso da uno squalo. Ebbe due figli dall’amata moglie Carla. Il più giovane, Giulio, morì proprio in mare, durante un’immersione. Il documentario che Tornatore gli ha dedicato è molto bello. Le interviste alle persone che hanno lavorato con Goffredo Lombardo sono montate in una successione rapida e alternata, fino a costruire una storia unica e polifonica. Fra le voci, la più commovente è quella di Cesarina, la fedele segretaria, molto applaudita a Venezia. Sullo sfondo le immagini dei più bei film della storia italiana. È un esempio di come andrebbe raccontato il cinema italiano. Nel potente ritratto montato da Tornatore si parla anche del rapporto di Lombardo con la fede. Dice Tornatore che Goffredo si riavvicinò all’altare dopo la morte del figlio. E non dice altro. Ma non fu solo questo. Passato attraverso il trauma della bancarotta causata dal furioso extrabudget de Il gattopardo e dal fallimento al botteghino di Sodoma e Gomorra di Aldrich, Lombardo si era messo a fare televisione, con la stessa passione impiegata nel cinema. Produsse la prima soap italiana, Edera interpretata da Agnese Nano. Prima del Grande Giubileo del Duemila realizzò una fiction dedicata alla Madonna, Maria figlia del suo figlio, con l’attrice israeliana Yaël Abecassis. Quando ne parlava, gli brillavano gli occhi. «È dedicata a mia madre», diceva agli amici. Leda Gys, infatti, aveva interpretato Maria in una storica Passione del cinema muto diretta da Giulio Antamoro. Nel Duemila volle pagare di tasca propria le spese della Giornata degli artisti organizzata dal Vaticano per il Grande Giubileo del Duemila. Quando Monsignor Enrique Planas, direttore della Filmoteca Vaticana, gli chiese cosa volesse come ricompensa, Lombardo chiese una foto del Papa con una dedica. Solo una semplice foto. Negli ultimi anni della sua vita, quella foto campeggiò solitaria nel grande scaffale dove erano stati ospitati trofei e targhe della sua attività cinematografica. Quando gli chiedevano che fine avessero fatto tutti quei riconoscimenti professionali, lui sorrideva e alzava le spalle. Il suo funerale si svolse nella cosiddetta “chiesa degli artisti”, nel centro storico di Roma, a pochi metri da casa sua. Era la stessa chiesa dove Goffredo Lombardo, tutte le mattine, andava a seguire la messa e a servire il prete nella liturgia. Con la stessa umiltà di un ragazzo. Con lo stesso sorriso.
Il cratere del Lido
Paolo Baratta, con un’intuizione, alla fine l’ha definita “La Mostra del Buco”. Il “buco”, ovviamente, è quello del cantiere abbandonato del nuovo Palazzo del Cinema che troneggiava nel bel mezzo delle strutture della 67ª edizione del festival veneziano. La definizione però si presta ad una lettura più articolata. Il “buco”, infatti, è anche quello del rapporto fra Baratta e il ministro Bondi (che infatti non è andato alla Mostra). Il “buco” è quello dei finanziamenti che dovrebbero garantire la vitalità del festival ma che continuano ad essere tragicamente inferiori a quelli del concorrente Festival di Roma. Il “buco”, infine, è quello delle incertezze del totonomine. I vertici sono in scadenza. Chi sarà il nuovo direttore della Mostra? Chi il nuovo presidente? Un “buco” nero, appunto.


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“I preti tendono a mimetizzarsi, vivono e vestono come laici e si vergognano di mettersi anche una crocetta sul maglione. Così non c’è da stupirsi se finisce che il semplice fedele poi si vergogna pure a farsi il segno della croce in pubblico”. Così ragionava Alberto Sordi, nel 2000, in un’intervista al mensile “30 giorni”. Avrebbe bisogno di rifletterci anche Carlo Verdone. Nel suo nuovo film “Io, Lara e loro” interpreta un prete missionario in crisi che torna a casa dopo venti anni passati in Africa. A Roma trova però una situazione molto caotica e deciderà presto di tornare in missione ad affrontare siccità e banditi di strada insieme con le mille difficoltà della povertà del terzo mondo pur di evitare i nevrotici problemi quotidiani della sua famiglia. Il prete di Verdone non prega mai, durante tutto il film, e neanche una volta si mostra vestito completamente da prete, tranne che per un fugace clergyman indossato distrattamente un paio di volte. In una di queste occasioni, con il colletto rigido che gli gonfia il collo, domanda con durezza a due brutti ceffi molto malintenzionati: “Che la portate a fare questa croce al collo?”. È la stessa domanda che vorremmo rivolgere a Verdone. Perché un prete? La stessa storia non poteva essere raccontata anche da un personaggio un po’ più laico? Dalla visione del film si esce confusi. Presi da due desideri ugualmente urgenti. Stroncare e lodare. Alla figura del prete descritta da Verdone manca infatti la dimensione più importante, quella religiosa. L’assenza della prospettiva del trascendente, l’unica in grado di giustificare la vocazione sacerdotale, rende il personaggio opaco e ambiguo. D’altra parte il pubblico del film, dopo i titoli di coda, inizia subito a discutere animatamente di preti e di missionari. Una bella novità in un’epoca e in un contesto sociale che sembrano aver completamente dimenticato la generosa attività che i sacerdoti in tutto il mondo svolgono silenziosamente e gratuitamente nella nostra vita. Giancarlo Zizola, qualche giorno fa su “La Repubblica”, si lamentava del fatto che i preti, quando predicano dal pulpito, usano gli argomenti divini per temi molto terreni (il costume, la politica). È una visione vecchia. Nelle parrocchie in Italia e in tutto il mondo, i preti sempre di più sono impegnati a parlare soprattutto di Dio e dei Suoi sacramenti. Secondo le linee del “Progetto culturale” lanciato da Giovanni Paolo II e coordinato ancora oggi dal Cardinale Camillo Ruini, è la realtà sociale e politica nella quale viviamo a spingerli (e a spingerci) a rivolgere gli occhi verso l’alto. “La comunicazione deve favorire la comunione nella Chiesa, altrimenti diventa protagonismo individuale oppure, ed è ancora più grave, introduce divisione. All’evangelizzazione non servono i preti showman”, ha detto recentemente Monsignor Mauro Piacenza, Segretario Generale della Congregazione per il Clero, nel suo intervento alla Giornata di Studio su “La comunicazione nella missione del sacerdote” organizzata dalla Facoltà di Comunicazione della Pontificia Università della Santa Croce. Secondo Monsignor Piacenza, “il sacerdote non deve improvvisare quando utilizza i mezzi di comunicazione e neppure deve comunicare se stesso, ma duemila anni di comunione nella fede, un messaggio che può essere trasmesso soltanto attraverso la propria esperienza e vita interiore”.

Il film di Verdone esce proprio all’inizio dell’anno sacerdotale indetto dal Papa. “Non di rado, sia negli ambienti teologici, come pure nella concreta prassi pastorale e di formazione del clero, si confrontano, e talora si oppongono, due differenti concezioni del sacerdozio – ha detto recentemente Benedetto XVI (Udienza generale del 24.06.2009) -. Rilevavo in proposito alcuni anni or sono che esistono “da una parte una concezione sociale-funzionale che definisce l’essenza del sacerdozio con il concetto di ‘servizio’: il servizio alla comunità, nell’espletamento di una funzione… Dall’altra parte, vi è la concezione sacramentale-ontologica, che naturalmente non nega il carattere di servizio del sacerdozio, lo vede però ancorato all’essere del ministro e ritiene che questo essere è determinato da un dono concesso dal Signore attraverso la mediazione della Chiesa, il cui nome è sacramento”. A ben vedere, non si tratta di due concezioni contrapposte, e la tensione che pur esiste tra di esse va risolta dall’interno”.

Proprio in questi giorni sono stati pubblicati i dati dei missionari uccisi nel 2009. Si tratta di trentasette sacerdoti assassinati, per lo più brutalmente. “La loro testimonianza eroica dimostra, se mai ce ne fosse ancora bisogno, quanto sia utile una presenza di questo genere in zone deteriorate e devastate dal sopruso – scrive Lucetta Scaraffia in un suo articolo per l’Osservatore Romano -. Senza armi — e spesso con pochissimi mezzi, certo molti di meno di quelli dei poteri violenti che essi combattono — questi cattolici dimostrano con il loro esempio che un altro mondo è possibile, un mondo di solidarietà e verità, di amore gratuito. E già questo basta a renderli un bersaglio mortale”.

Verdone, nel suo film, riesce soltanto a sforare la complessità del tema. “Quando non si tiene conto del “dittico” consacrazione-missione, diventa veramente difficile comprendere l’identità del presbitero e del suo ministero nella Chiesa – ha spiegato Papa Ratzinger durante l’Udienza generale dello scorso 1 luglio -. Chi è infatti il presbitero, se non un uomo convertito e rinnovato dallo Spirito, che vive del rapporto personale con Cristo, facendone costantemente propri i criteri evangelici? Chi è il presbitero se non un uomo di unità e di verità, consapevole dei propri limiti e, nel contempo, della straordinaria grandezza della vocazione ricevuta, quella cioè di concorrere a dilatare il Regno di Dio fino agli estremi confini della terra? Sì! Il sacerdote è un uomo tutto del Signore, poiché è Dio stesso a chiamarlo ed a costituirlo nel suo servizio apostolico. E proprio essendo tutto del Signore, è tutto degli uomini, per gli uomini”.

Alcuni sacerdoti romani, che hanno avuto il privilegio di vedere con molto anticipo una copia del film di Verdone, lo hanno ringraziato e gli hanno detto “ci hai accarezzato”, tanto che Verdone si è giustamente sentito autorizzato a dire che la Cei aveva approvato il suo film. La valutazione pastorale espressa dalla commissione nazionale valutazione film della Cei è molto benevola. “Va diretto al cuore del problema Carlo Verdone in questo suo nuovo racconto che, con un indovinato scarto di sceneggiatura, gioca sul repentino rovesciamento della situazione iniziale – scrivono gli esperti cinematografici dei vescovi italiani -. Calandosi in questo personaggio di sacerdote generoso, disponibile, aperto, forse un po’ ingenuo, Verdone si crea le premesse per gettare sull’Italia contemporanea uno sguardo amarognolo, fatto di qualche delusione e insieme di molta voglia di riscatto. La constatazione finale dice che l’Italia é, per motivi opposti all’Africa, scenario di una differente ma non meno necessaria missione di recupero di valori civili condivisi. E in questo scenario il ruolo del sacerdote non è certo secondario. Circondato da un coro di figure piccole e grandi (i “mostri” di oggi), Verdone é bravo a suscitare divertimento di fronte ad argomenti per i quali in fondo c’è ben poco da ridere. Dal punto di vista pastorale, il film é da valutare come consigliabile e, nell’insieme, brillante”.

Il prete di Verdone insomma manca l’obiettivo di rappresentare la complessità moderna del ministero sacerdotale; ne coglie però un aspetto altrettanto interessante, come forse è stato intuito dagli esperti della Cei. Verdone, infatti, ci racconta cosa vedono i laici nei preti di oggi e cosa pensano del ministero sacerdotale. È ovvio quindi che manchi la dimensione del trascendente perché (e non certamente per colpa di Verdone) detta dimensione è sparita dalla nostra quotidianità, anche e soprattutto nel rapporto che abbiamo con i sacerdoti, ai quali siamo ormai capaci di chiedere di tutto (come fanno anche i parenti con il personaggio interpretato da Verdone) tranne l’unica cosa per la quale il prete ha una qualche competenza specifica: la preghiera.

Giovanni Paolo II, nel 1979, all’inizio del suo Pontificato, nella sua “Lettera a tutti i sacerdoti della Chiesa”, aveva scritto: “Forse negli ultimi anni, almeno in certi ambienti, si è discusso troppo sul sacerdozio, sull’”identità” del sacerdote, sul valore della sua presenza nel mondo contemporaneo, ecc. ed al contrario si è pregato troppo poco. Non c’è stato abbastanza slancio per realizzare lo stesso sacerdozio mediante la preghiera, per rendere efficace il suo autentico dinamismo evangelico, per confermare l’identità sacerdotale”. Giovanni Paolo II, dieci anni più tardi, nel 1988 a Torino, aveva sottolineato che “Il sacerdote è colui che trasmette la vita divina agli uomini. Potrà essere anche debole, imperfetto, certamente mai pari alla grande fiducia che Dio gli ha fatto, chiamandolo ad essere suo ministro. Ma la sua forza, la sua ricchezza sta primariamente qui: divinizzare gli uomini, santificarli, nutrirli di Dio”. Il sacerdote, insomma, al contrario di quello interpretato da Verdone, “è un uomo che non si appartiene”, (sempre Giovanni Paolo II, nel 1988, ad alcuni sacerdoti a Nepi). Un’immagine che sembra il contrario del prete disegnato da Verdone, attaccato alle cose di questo mondo tanto da arrivare a spiare la ragazza svestita in camera da letto.

Nella giornata del Giubileo del Duemila dedicata al mondo dello spettacolo, Wojtyla disse: “Carissimi, voi che lavorate con le immagini, i gesti, i suoni; in altre parole, lavorate con l’esteriorità. Proprio per questo, voi dovete essere uomini e donne di forte interiorità, capaci di raccoglimento. In noi abita Dio, più intimo a noi di noi stessi, come rilevava Agostino. Se saprete dialogare con Lui, potrete meglio comunicare con il prossimo. Se avrete viva sensibilità per il bene, il vero e il bello, i prodotti della vostra creatività, anche i più semplici, saranno di buona qualità estetica e morale. La Chiesa vi è vicina e conta su di voi!”. In Piazza San Pietro, ad ascoltarlo c’era anche Alberto Sordi, da molti considerato il vero “padre artistico” di Verdone. “Il mio rapporto con il Padreterno si basa proprio sull’educazione che fin da piccolo i miei genitori mi hanno dato così come mi hanno insegnato a camminare e a parlare – disse allora Sordi al giornalista di “30 giorni” -. Vado a messa, mi confesso, prego ogni giorno, credo nei dogmi e non li discuto. È bello credere, e non si crede facendo tanti ragionamenti: io sono cristiano, la vita mi ha sempre più convinto che il cristianesimo è vero. Che bisogno c’è di ragionarci su?”. Vero. Ma sempre Sordi aggiungeva, profetico: “Anche la Chiesa però può peccare di esibizionismo, di leggerezza, come quando è ossessionata dal problema di catturare il consenso dei giovani”.