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Marco Muller

Marco Muller

Una fortunata pubblicità di una festa de L’unità di alcuni anni fa, parlava del “modello romano”. Lo slogan, coniato nel 2007, era un’invenzione di Andrea Mondello, uno dei collaboratori del Sindaco Walter Veltroni. L’economia della capitale cresceva così in fretta, diceva Mondello, che poteva essere presa come esempio “virtuoso” dall’intero paese (altri tempi, purtroppo). Negli anni del “modello romano” nacque anche il Festival cinematografico di Roma. (altro…)

Dopo l'approvazione della manovra di Tremonti e Galan, chi si farà carico di gestire Cinecittà e il Luce? Il Lazio intanto vara la prima legge quadro per il cinema regionale.

Il futuro di Cinecittà potrebbe essere federalista. Dopo la manovra finanziaria voluta da Tremonti e da Galan, approvata dal Parlamento la scorsa settimana e subito promulgata da Napolitano, il Governo nazionale ha segnato un significativo passo indietro nella gestione di Cinecittà. (altro…)

La prossima sfida per il sistema festivaliero romano è quella di tramutarsi nel primo laboratorio politico bipartisan del cinema italiano. Il vero problema a Roma, come altrove, è infatti la mancanza di dialogo. Alcuni esempi? (altro…)

Director’s cut, ovvero Cut The Director, uccidi il direttore. Finita la prima stagione politica di Muller a Venezia e della De Tassis a Roma, è partita la corsa per il nuovo vertice dei due festival cinematografici più importanti d’Italia. Uno stipendiuccio malcontato di circa 100 mila Euro l’anno più viaggi e benefit e una visibilità da rock star. Chi vincerà? Ecco i candidati, salvo sorprese.

Marco Muller, il numero uno per succedere a sé stesso a Venezia o per andare a dirigere invece il festival di Roma. È molto corteggiato per un super incarico di coordinamento cinematografico della capitale (in chiave anti De Tassis) ma lui si schernisce dicendo che vuole tornare a fare il produttore. Anche se non ha esitato a sollecitare e animare incontri con i maggiorenti capitolini mentre impazzava il festival romano.

Piera De Tassis, la numero uno per succedere a sé stessa a Roma o per andare a dirigere invece il festival di Venezia; ha amici illustri fra i registi italiani e, sul fronte delle presenze americane, ha fatto vedere più di un sorcio verde anche a Muller. Inoltre, con furbizia strumentale, ha aperto il suo tappeto rosso alla protesta del cinema italiano contro Bondi. Però è anche la direttora di Ciak, mensile di cinema della Mondadori. Il Presidente del Festival, Rondi, ne ha sempre parlato benissimo. In pubblico.

Giorgio Gosetti, un superaddetto ai lavori navigato e di vecchia scuola, conosce bene (un amore ricambiato) il cinema indipendente italiano e internazionale. Quest’anno ha scelto, per le sue Giornate degli Autori, gli unici film italiani premiati a Venezia 67, mentre infuriavano le polemiche sulle decisioni della giuria guidata da Tarantino. Anche se è in contrasto con il centrodestra fin dai tempi di Urbani, è comunque il concorrente che Muller teme di più.

Mario Sesti, autore di documentari indimenticabili su Fellini e Germi (anche se è più famoso per il suo pessimo carattere). Sembra il vincitore morale del recente Festival di Roma. Decine di articoli hanno celebrato la sua rassegna “Extra”. Di conseguenza lui ha pensato bene di litigare con gli altri colleghi della direzione artistica di Roma. Ha una tendenza per il cinema eccessivo, porno incluso. È il concorrente che la De Tassis teme di più.

Andrea Purgatori, sarà anche poco simpatico a Bondi ma, con “Tuttiacasa”, ha monopolizzato per giorni tutti i media italiani, oscurando il fascino latino di Eva Mendes, finendo da Santoro e costringendo i politici locali, Zingaretti e Croppi in testa, a rincorrerlo sul telefonino. Un talento raro che potrebbe tramutarlo nella carta segreta dei “100autori” per un candidatura di sinistra e antigovernativa.

Maria Rosa Mancuso, la piccola e tosta critica de “Il foglio”, potrebbe essere invece l’arma segreta di una candidatura dei salotti della destra liberale. Ma reagisce con fastidio se qualcuno le parla di una direzione festival. Scuote la testa e borbotta: “Troppe rogne”.

Diamara Parodi, candidatura tecnica per i numeri in crescita della sua “Business Street”. Alemanno e la Polverini, insieme con il nuovo assessore culturale del Lazio, Fabiana Santini, dicono infatti che il festival ormai ha senso solo come supporto al mercato.

Lucia Milazzotto, è meno conosciuta della Parodi ma con il suo “New Cinema Network” ospita a Roma ogni anno i migliori produttori indipendenti d’Europa. Una rete di rapporti che garantirebbe l’identità autoriale che il festival romano non ha ancora trovato.

Pascal Vicedomini, il suo nome arrotonda già le prime conversazioni informali fra alcuni dei politici che si stanno cominciando ad occupare delle nomine e che, negli anni scorsi, sono stati suoi ospiti (molto, forse troppo, coccolati) alla manifestazione “Capri ad Hollywood”.

Luciano Sovena, preferisce fare il produttore ma, vista la mala parata dei finanziamenti pubblici a Cinecittà, pensa da tempo di cambiare casacca e, forte dell’esempio di Muller che non ha mai veramente interrotto la propria attività, comincia a guardare alla guida di Venezia come ad una soluzione.

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Difficile scrivere una cosa così ma è necessario guardare in faccia la realtà. Il cinema non è un mestiere per vecchi. Viviamo in un momento di trasformazioni che sembrano solo tecnologiche ma che invece sono anche culturali e che quindi hanno conseguenze di tipo sociologico. “360°”, la nuova parola d’ordine di produttori e autori per contenuti rigorosamente crossmediali e multipiattaforma, impone di muovere la testa in modo acrobatico ed elastico. Un’attitudine difficile per coloro che hanno problemi di cervicale e di artrosi. La generazione dei padri e dei nonni deve fare un passo indietro. Come disse una volta un caro amico, padre di molti figli: «Il nostro primo dovere è di togliere le mani. Di lasciare che le cose accadano». E la prima delle “cose” che devono accadere è proprio il ricambio generazionale. Non se la prendano amici e colleghi che lavorano nel mondo del cinema ma è ora di alzarsi da tavola. Nelle proteste che si levano periodicamente per i tagli ai finanziamenti pubblici al cinema, c’è un dato che fa sempre una certa impressione: l’età dei registi che firmano le petizioni o gli editoriali sui quotidiani. Difficile trovarne uno che abbia meno di sessant’anni. I vecchi sono conservativi per istinto. La vita corre via e ogni mattina ti guardi allo specchio e speri che il tempo si fermi. Per i giovani, invece, le cose devono succedere. Hanno fretta di crescere e di sperimentare. Soprattutto hanno voglia di cambiare. I vecchi parlano di morte del cinema. Dicono che il linguaggio è cambiato e che il cinema non esiste più. Un odioso desiderio di portarsi l’arte nella tomba. Sto leggendo le bozze del romanzo di un ventinovenne aspirante filmaker, Paolo Boriani. Ogni capitolo è dedicato a un film. Le immagini evocate si intersecano in modo inestricabile alla quotidianità di tipo autobiografico di questo giovane milanese fra genitori, musica, amici, mostre di design e performance di nuovi artisti. Interessante. Magnetico. I giovani fanno così: si avvicinano al cinema con lo stupore della “prima volta”. Si mettono in fila davanti alle sale e discutono di come fare il cinema del prossimo secolo. Fra poco inizieranno le battaglie per il rinnovo delle cariche sociali ai vertici dei principali festival italiani, Roma e Venezia, e, subito dopo, di Cinecittà. Si tratterà di vere e proprie lotte senza esclusioni di colpi. Il tema vero però rimarrà sullo sfondo. I contendenti infatti viaggiano allegramente verso i sessanta, i settanta e, qualcuno, anche verso gli ottanta. Ad una conferenza stampa per happy few a Venezia, uno degli sponsor aveva pensato bene di regalare una confezione di pomata antiage. Contro le zampe di gallina e le occhiaie. Come dargli torto. In una sala cinematografica per un’anteprima riservata ai giornalisti, mentre i ragazzini e le ragazzine dei magazine online e i giovani parvenu della critica cinematografica vociavano allegramente di un regista o di un film, uno dei vecchi soloni del cinema è sbottato: «Ma chi si credono di essere questi sbarbatelli!». Non credono di essere, verrebbe voglia di rispondere, ma essi sono, sono veramente il futuro del cinema. Al recente Mipcom di Cannes c’era uno che di cinema se ne intende, Jon Feltheimer, il capo indiscusso del successo di Lionsgate (centinaia di milioni di spettatori ovunque, dieci Oscar negli ultimi dieci anni e serie tv di successo planetario come Mad Men). «La mia visione per il futuro di cinema e tv ha una sola parola d’ordine» – ha detto a mille addetti ai lavori provenienti da tutto il mondo -: «Il futuro è cambiare». Cambiare. Il cinema di oggi non è un mestiere per vecchi. Ma forse non lo è mai stato. Chi si ricorda quanti anni aveva Fellini quando vinse la Palma d’Oro con La dolce vita e quanti anni aveva Rossellini quando girò Roma città aperta? Avevano entrambi solo 40 anni (e allora sembravano già molti). Citizen Kane, il più bel film della storia del cinema, venne girato da Orson Welles quando questi aveva 25 anni.


Pubblicato su Boxoffice

Nati per essere selvaggi, i festival cinematografici hanno tradito la loro missione e sono diventati noiosi. Il cinema è ancora oggi il principale driver delle scelte delle giovani generazioni in tutto il mondo ma le macchine festivaliere si sono imbolsite. Hanno perso il gusto per l’avventura e per la scoperta. Siamo in attesa di andare nella fredda Berlino a vedere “Metropolis” in versione integrale (una novità nientemeno del 1927, sbadiglio) e abbiamo archiviato le edizioni 2009 di Venezia (perennemente corrucciata per l’assenza del mercato), Roma (con le botte di orgoglio politicante di Bettini che dice Il festival è ancora mio nonostante Alemanno e il centrodestra, tiè) e Torino (molto strillato nella versione autorale di Amelio dopo Moretti ma decisamente poco selvaggio). Ci scappa così il tempo per immaginare il festival che vorremmo. Nel sogno, come spesso accade, le location, Venezia Roma e Torino, si confondono e si mischiano con le fattezze impettite dei vari Muller, De Tassis, Amelio, ecc. Ci siamo divertiti a sognare una cerimonia dove il direttore dice soltanto Benvenuti ed ecco aperta la mostra. E basta. Un posto insomma dove la politica e il protagonismo dei vertici lascino lo spazio all’unico oggetto sociale dei festival: lo stupore del film che non ti aspetti. Per il gala, al posto degli speech, aiuterebbe un po’ di musica. Sarebbero perfetti, per esempio, Rodrigo y Gabriela, due simpatici messicani, mostri di bravura, che hanno trasferito gli standard musicali dell’heavy metal nel mondo della chitarra acustica. “Crazy version, I hope you like it”, ha detto ridendo Gabriela prima di un concerto a Manchester. I loro pezzi (con due chitarre e basta) sono un fuoco di artificio di ritmo e di sorpresa ad ogni nota. Nella cerimonia di una qualsiasi sala grande, fra smoking e improbabili abiti lunghi, ci starebbe bene una cascata scoppiettante di suoni come quella proposta dalla loro musica. Ascoltate per credere alcuni cavalli di battaglia come Juan loco, One o le cover Orion dei Metallica e Stairway To Heaven dei Led Zeppelin. Per svegliarci dalla noia burocratica che ha ormai colpito i festival cinematografici di casa nostra (interminabili, per esempio, tutte le conferenza stampa e ormai insopportabili i sermoncini in politichese di registi e attori di casa nostra in ogni festival) bisognerebbe proprio dare retta a Gavin, il re dei dj del Regno Unito negli anni sessanta. “La cosa che dà un senso a questo mondo folle è il rock and roll. E io sono stato folle a pensare che avrei mai potuto abbandonarlo” dice nel film “I love Radio Rock” di Richard Curtis con Kenneth Branagh, Philip Seymour Hoffman e Emma Thompson, un film che, secondo la Tornabuoni, propone “grazia e divertimento fuori del comune”. Che è appunto ciò che manca ai nostri festival. Le cine-gare nacquero per portare un po’ di pubblico fuori stagione in alcuni grandi alberghi balneari, a Venezia con il Conte Volpi e, subito dopo, a Cannes. È stato un periodo divertente. Smoking bianchi e paparazzate fino a tarda notte. Ma già allora si poteva capire che il futuro dei festival sarebbe stato “selvaggio” o non sarebbe stato affatto. Lo sa bene Robert Redford con la fortunatissima formula del “Sundance”. Lo avevano ben capito a Venezia qualche anno fa due pionieri come la Cattani e Ferzetti quando inventarono la “Finestra sulle immagini”. We were born, born to be wild. Noi eravamo nati per essere selvaggi, cantavano gli Steppenwolf una quarantina di anni fa nella colonna sonora di Easy rider. E aggiungevano: Head out on the highway.
 Lookin’ for adventure. 
And whatever comes our way.
 Yeah Darlin’ go make it happen. Guida fuori dalla strada maestra. Cerca l’avventura e qualsiasi cosa accada, ti prego, fa che accada. Una formula perfetta per cercare di recuperare l’attenzione del grande pubblico cinematografico delle giovani generazioni, il pubblico cioè che decreta i successi dei blockbuster e che è l’unico, quindi, che interessa ancora a chi fa il cinema veramente.

Pubblicato su Box Office