
The fault in our stars
Hazel Grace Lancaster, una ragazza con il giovane destino tragicamente segnato da un cancro alla tiroide, dice a Augustus “Gus” Waters, un coetaneo con la gamba amputata a causa di un osteosarcoma: «Gus, amore mio, non riesco a dirti quanto ti sono grata per il nostro piccolo infinito. Non lo cambierei con niente al mondo». La loro drammatica storia d’amore (un «piccolo infinito») è raccontata in un libro di John Green che si intitola “Colpa delle stelle” (The Fault in Our Stars). Il romanzo («quasi geniale», secondo il quotidiano britannico The Times) ha scalato le classifiche dei libri più venduti nel mondo ed è diventato anche un film diretto da Josh Boone e interpretato da Shailene Woodley e da Ansel Elgort. Il trailer è molto lacrimevole ed è molto scaricato su Youtube e il film arriverà in autunno in Italia. Sara, appena adolescente, invece è figlia di allevatori di capre e vive in Texas con tanti fratelli educati in casa da mamma e papà. Figlia maggiore dei Carlson, Sara conduce una vita “senza salti”: accudisce gli animali della fattoria, collabora all’economia domestica e all’educazione dei suoi fratellini. La sua giornata è scandita dalle preghiere e dalla lettura della Bibbia, che commenta e argomenta con la madre e le sorelle. Un giorno, però, incontra il coetaneo Colby Trichell, allevatore di tori e cowboy senza sella. Un colpo di fulmine. Un tuffo del cuore. Si tratta della trama di “Stop the Pounding Heart” (letteralmente “Fermare il cuore in gola”) il documentario di Roberto Minervini che ha vinto il premio David di Donatello di quest’anno. Un film quasi muto. I dialoghi ridotti all’essenziale mentre la macchina da presa, presenza invisibile e impalpabile, riprende i lenti pomeriggi di preghiera nella fattoria dei Carlson o segue da vicino i mutamenti silenziosi delle espressioni del viso della giovanissima Sara. Timidezze. Cose non dette. Il sorriso di Sara e la spavalda e semplice energia di Colby. La campagna e gli animali. Non ci sono telefonini o Internet nella vita dei ragazzini della profonda provincia texana del 2014. Fa impressione la rarefatta acustica ovattata di questo sorprendente documentario. Colpisce la sospensione del tempo e dei sentimenti come i frammenti di polvere in un raggio di sole nella penombra di una stanza. Una ragazza, appena più intraprendente di Sara, alla fine però si intrometterà in quel sogno di amore che non aveva ancora preso una forma. Un colpo per Sara. Il cuore che si ferma in gola e che la costringe a tornare sui suoi passi, alla lenta attesa di un amore che possa finalmente farla sbocciare alla vita. La storia di un amore interrotto. Come nel bellissimo cortometraggio di Adriano Valerio. Si intitola “37°4 S”, ha vinto il David di Donatello come migliore corto dell’anno e ha avuto la menzione speciale a Cannes 2013 e ai Nastri d’Argento 2014. Il titolo “37°4 S” indica le coordinate di un’isola, Tristan da Cunha, sperduta nell’Atlantico a tremila chilometri di distanza dalla costa più vicina, a metà strada tra Città del Capo e Rio De Janeiro. Una realtà in mezzo al nulla. Ci vivono più o meno 270 persone. Una terra aspra, piena di vento e di un mare infinito che circonda l’isola con una cinica e scorbutica indifferenza. Adriano Valerio ha scelto questa location insolita, ma dal sapore fortemente simbolico, per raccontare la storia di due adolescenti. Si chiamano Nick e Anne, si conoscono da sempre (e come potrebbe essere diversamente in una comunità così piccola?) e da sempre sono innamorati. Ma Anne sconvolge la loro piccola routine di innamorati: vuole andare a studiare in Inghilterra, a 6152 miglia da Tristan. Non è un addio, ripete. Nick però guarda il mare enorme e grigio sull’orizzonte. E sospira. L’amore, nella cultura della contemporaneità, è ben rappresentato da quella minuscola isola che sembra perduta in un Oceano gigantesco. Un sentimento che vorrebbe sfidare l’universo ma che si esaurisce in uno sguardo triste davanti alla banchina del porto, come nel caso di Colby, oppure nella profondità disperata ma muta degli occhi azzurri di Sara o, infine, nelle lacrime della malattia senza speranza di Hazel Grace. La felicità è una domanda fondamentale nella sfera affettiva dell’essere umano, dicevano i teologi della scolastica. L’amore, spiegano gli psicologi, mantiene vivi e tiene accesa la speranza. Senza amore non si viene al mondo; senza amore non si pensa al futuro; senza amore si perde consapevolezza di sé; eccetera. Nonostante che l’amore sia alla base della nostra vita, la cultura contemporanea ha assunto però un atteggiamento problematico. Sarà colpa di Heidegger o di Nietzsche, pensano i filosofi. Il loro antropocentrismo così radicale ha negato l’esistenza di un realtà che ci trascenda. L’amore, quello vero, infatti ci proietta fuori dal nostro egocentrismo ed è un sentimento che mal si concilia quindi con una visione fondamentalista della centralità assoluta dell’uomo. Molto probabilmente oggi, nella post-modernità, scontiamo il «dramma» di quell’«umanesimo ateo» di cui ha scritto nel ‘900 il gesuita Henry De Lubac. L’amore «non è altro che la capacità che hanno gli esseri di uscire da sé, oltrepassando i propri stessi limiti, lasciando che l’impronta di un’ altra esistenza produca un effetto, agendo oltre se stessi, come se l’essere di ogni cosa avesse la sua verità solo nel movimento verso un’altra» ha detto Paola Ricci Sindoni, Presidente Nazionale dell’Associazione Scienza & Vita. Ha aggiunto: «Fra le tante parole malate, sparse sul terreno fragile e vuoto della retorica pubblica, degli annunci televisivi, delle chiacchiere sui social network sta il nome antico dell’Amore, nome tanto così spesso deformato e non di rado in modo amaro e tragico, estenuato e svilito in troppi rivoli paralizzanti, persino violenti, in immagini parziali e negative, in discorsi vuoti ed estetizzanti che soddisfano solo il bisogno psicologico di esternazioni, nell’illusione di trasformare, discutendo». Anche il cinema, che è un grande specchio della contemporaneità, si avvicina così al tema dell’amore con una prudenza e con una visione meno “luminosa” di un tempo. Diceva Sant’Anselmo che chi si abitua alle tenebre non può discutere della luce del sole. Come i pipistrelli che non possono neanche “pensare” il sole perché vivono nel buio. Parlando del tema del convegno su “Questioni di cuore e di ragione. Tracce per un percorso formativo all’affettività e alla sessualità” che si è svolto a Roma alla fine di maggio, Paola Ricci Sindoni ha detto: «Vale perciò la pena trarlo fuori, l’amore, dalla segretezza e dall’oblio, per restituirlo al suo vero Nome». Per fargli superare, in un balzo, la distanza incommensurabile che ormai separa il vero amore dalla nostra vita. Per farlo uscire dalla gabbia di quell’isola nell’Oceano.
Pubblicato sulla Newsletter di “Scienza & Vita” il 9 luglio 2014