Asciutto e laico nell’approccio narrativo e nell’apparente assenza di un giudizio, il film “Maternity blues” (in uscita nelle sale italiane) affronta il tema della depressione post parto. E’ interpretato in modo magistrale da quasi tutte le attrici del cast e provoca nel pubblico un inaspettato sentimento di immedesimazione e di solidarietà. Verso le madri assassine, in modo molto più marcato. Molto meno nei confronti dei bambini uccisi. “Maternity blues”, diretto da Fabrizio Cattani e tratto dal testo teatrale «From Medea» di Grazia Verasani, era stato proiettato in anteprima al festival di Venezia dello scorso settembre. Nella stessa manifestazione era stato presentato alla stampa anche il film di Cristina Comencini, “Quando la notte”, interpretato da Claudia Pandolfi e liberamente ispirato al delitto di Cogne. “Maternity blues” è interamente ambientato nei padiglioni di un Ospedale Psichiatrico Giudiziario e racconta il dramma intimo e irrisolto di quattro donne che hanno ucciso i propri figli. La cronaca, a Cogne, si era gettata in modo avido sulla drammatica storia di una madre imperfetta. Il personaggio era piaciuto ai riflettori. Le lacrime e i sorrisi inaspettati della tragica protagonista avevano fatto così scorrere la penna degli autori e hanno ispirato oggi le interpretazioni sofferte di alcune brave attrici. La legge dei media è banale. I bambini uccisi e abortiti sono, come dire?, poco fotogenici. Non ispirano empatia. Abbandonano presto la scena e, timidamente, non lasciano tracce. Uno strazio per il cuore. Certo. Ma una scarsa presenza scenica. Così, quasi inevitabilmente, il palco viene conquistato da coloro che sopravvivono. Uno scarto di messa a fuoco che diventa l’emblema di un momento peculiare della nostra storia. L’omogeneizzazione del pensiero contemporaneo, appiattito sulle dure leggi del consumo, ha innalzato un altare al sentimento dell’egoismo. La soddisfazione dei desideri primari viene prima di ogni altra cosa. Il resto, tutto il resto, è spostato ad un dopo inafferrabile, sfumato e nebuloso. Il cinema conosce bene questi sentimenti e, fra pop corn e bibite gasate, ne ha sposato la causa. La maternità e la paternità sono diventati così, anche al cinema, un sacrificio inaccettabile per gli adulti del mondo occidentale. Un egoismo che, per la sua estrema contraddizione (per tutelare i privilegi effimeri della propria vita si nega la vita degli altri), provoca una sofferenza (e un disagio psichico) che il cinema sta provando a rappresentare e a sublimare in una catarsi paradossale. ”Se come madre non mi occupo di me stessa e del mio benessere psichico-fisico-affettivo non mi posso occupare senz’altro del benessere di un altro individuo così piccolo e tenace”, ha commentato Rosangela nel forum sul sito web del film. “Questo film si presta a una condivisione e libero sfogo della sofferenza interiore di cui oggi abbiamo disperatamente bisogno”, si legge in un commento anonimo. “Credo che in ogni padre e soprattutto ogni madre, anche i più innamorati del loro figlio, abiti una forza misteriosa e inquietante che alle volte ti suggerisce la ribellione anche violenta verso quello che senti come una minaccia, e non più come un dono, una responsabilità che ti piega e ti imprigiona, rispetto alla quale la tua forza diventa improvvisamente fragilità”, ha scritto Armando. “Ho pianto a dirotto per tutto il film”, ha commentato Francesca. Eccetera, eccetera. In un diluvio di parole che sono destinate ad aumentare per numero e rumorosità. Peccato che manchino proprio i commenti di coloro che, timidamente anche se contro la propria volontà, hanno già abbandonato la scena, senza lasciare tracce.
Pubblicato sulla Newsletter di Scienza e Vita del 30 aprile 2012

