Ciao Folco. Ti saluto anche come ex presidente del Luce. Ti ho voluto un gran bene. In quel periodo frenetico e convulso della mia vita, sei stato come una boccata di aria fresca. Il tuo sorriso così sincero e mai arrogante. Il tuo lavoro così serio e appassionato. Basta. Mi piacerebbe sprofondare nella nostalgia dei ricordi ma è un altro pensiero che mi spinge oggi a scriverti questo mio omaggio tardivo. Se non fosse stato per te infatti, molto probabilmente io e i miei successori al vertice dell’Istituto Luce non avremmo potuto fare altro che annoiarci.
Sei stato tu, infatti, grazie ad una intuizione di Giuseppe Sangiorgi, a dirigere quel capolavoro che è il lunghissimo documentario di trenta ore intitolato “Storia d’Italia”. Quando si arrivò a capire che tutta la storia del Novecento poteva essere raccontata con le immagini del cinema e che gran parte di quelle immagini erano nascoste nelle scatole di latta dei cellari del Luce, si consumò un vero e proprio switch nella storia di Cinecittà. Un turning point nella sceneggiatura della vita degli studios sulla Tuscolana dopo il quale le cose non sarebbero state più le stesse. È bene ricordarlo. È bene ricordarlo ancora una volta. È bene ricordarlo sempre. Furono chiamati tre storici: Castronovo, De Felice e Scoppola. A loro venne dato il compito di scrivere il testo e la timeline che avrebbero dovuto accompagnare e commentare le immagini. Poi squillò il telefono anche a casa tua. Folco, ti chiesero da Cinecittà, sei libero? C’è un lavoretto da fare. Tu sorridesti con quell’ingordigia innocente e infantile che caratterizzava la tua curiosità insaziabile per l’avventura umana. Eccomi, che devo fare, rispondesti. Nei cellari del Luce c’erano migliaia e migliaia di scatole di latta piene delle pellicole girate e montate dagli operatori del Luce. Più di 8.000 ore di immagini sulla storia italiana. Non erano mai state catalogate. I riferimenti utili per la ricerca delle immagini erano sparpagliati in disordine su un caleidoscopio di fogli ed etichette nella maggior parte dei casi scritte a mano. Per capire come montare il documentario più ambizioso della storia del cinema italiano, si doveva cominciare a “taggare” tutte quelle immagini. Ti mettesti al lavoro con un entusiasmo che era pari solo alla tua straordinaria umiltà. Passasti sullo schermo tutto quel materiale. Apristi anche quei misteriosi scatoloni che a Cinecittà chiamavano “armadi delle ragazze”. C’erano tutti i tagli di montaggio che cadevano ai piedi delle moviole e che le ragazze delle pulizie mettevano diligentemente da parte prima di spazzare e lavare il pavimento. Una tesoro inesplorato di immagini che oggi, nell’era dell’editing digitale, non potremmo neanche immaginare. Dopo non so più quanti mesi passati a vedere e a catalogare tutto, ti sei messo all’opera e, con l’aiuto del testo dei tre storici, hai costruito un miracolo di documentario dove le immagini potevano corrispondere, con pignoleria, alle parole. A distanza di anni, fanno tenerezza i giovani documentaristi che progettano nuovi montaggi con il repertorio del Luce. Vanno sul sito dell’archivio (realizzato più di quindici anni fa grazie al lavoro di digitalizzazione del repertorio curato da Edoardo Ceccuti), scrivono sulla stringa di ricerca le loro keywords e trovano, in pochi istanti, i filmati di cui hanno bisogno. Non sanno che ognuna di quelle keywords è il frutto del lungo e instancabile lavoro del più grande regista di documentari della storia del cinema italiano, Folco Quilici.
Pubblicato su BoxOffice di marzo 2018