Cinema pubblico: è di tutti oppure è una battuta di Groucho Marx?

Pubblicato: 30 settembre 2014 in cinema
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Cinema pubblico

Cinema pubblico

Parliamo di cinema pubblico, ma delle due l’una. L’idea di un cinematografia che appartenga a tutti o è una tautologia (è di chi dovrebbe essere infatti se non del pubblico un’arte che è popolare per definizione) o è un non-senso degno di una delle battute al vetriolo di Groucho Marx. «Al cinema – ha scritto nel 2006 Jean Louis Comolli, regista, critico e caporedattore dei “Cahiers du cinema” – la regia, la scrittura di un film, quando sono forti, si ergono contro il nostro desiderio di vedere – e – sapere e lo costringono a un’elaborazione più potente della semplice soddisfazione dei piaceri, delle voglie. Il cinema va contro le saturazioni automatiche e le facili soddisfazioni cui fanno mediamente ricorso gli spettacoli». Leader di una certa critica cinematografica di sinistra, cara ai francesi e anche a molti italiani, Comolli è convinto, in altre parole, che il cinema sia il risultato di un rapporto speciale e intimo che si viene a creare ogni volta fra un singolo regista e un singolo spettatore. Sarà come dice lui. In Italia, intanto, il dibattito sul futuro del cinema “pubblico” si è arenato. I temi che vengono agitati sono tanti ma appartengono tutti ad una unica famiglia di pensiero: il finanziamento “pubblico” per il cinema. La domanda è sempre la stessa: in che modo lo Stato, con i denari della collettività, può e deve sostenere l’attività cinematografica nazionale? Le risposte, in questi anni confusi, si sono succedute e sovrapposte le une alle altre. Molte idee e tutte molto confuse. Il luogo comune più radicato però è che, con il sostegno economico dello Stato, la cultura egemone di una certa sinistra salottiera e tipicamente “romana”, abbia fatto in modo che il cinema “pubblico” (richiesto a gran voce) fosse gestito, nella realtà, come una faccenda privata all’interno di certe potenti e influenti combriccole di amici e parenti. Hanno fatto i “comunisti” con i soldi dei contribuenti, direbbero gli amici al bar, mentre i loro salotti diventavano ogni giorno più esclusivi e lussuosi. «I registi italiani sono pieni di case», ha detto qualche tempo fa Gerard Depardieu. Tutto questo però appartiene alla superficie del dibattito in corso. I problemi che l’industria culturale del cinema nazionale dovrà affrontare, infatti, sono diventati più grandi e complessi della macchina del finanziamento statale. Il cinema italiano dovrà cambiare rapidamente o sarà destinato a perire. Ecco perché. Il mercato è diventato globale e la rivoluzione digitale sta modificando in modo imprevedibile il modello di business. Ne ha scritto qualche tempo fa Gianni Celata nel libro “Blowing in the web” (edito da Key4Biz). Il cinema, ha spiegato, è destinato a percorrere la stessa parabola digitale della musica. La rete, regno dello streaming illegale, potrà trasformarsi, anche per il cinema, in una imprevista fonte di reddito. Riccardo Tozzi, presidente di Anica, si scontrò con questa realtà quando, in treno, scoprì che il suo compagno di viaggio stava vedendo sul proprio pc un film appena uscito nelle sale. «E’ un nuovo mercato di cui sappiamo poco e che dobbiamo imparare a presidiare», sospirò Tozzi. La scrittura cinematografica, ed è il secondo macrotema, è diventata una scienza molto sofisticata. Il premio Oscar Giuseppe Tornatore ripete spesso che è immensa la distanza che separa l’intuizione poetica di un autore dall’opera cinematografica che arriva alla fine davanti agli occhi di uno spettatore. Ci vuole una professionalità a prova di bomba per mantenere la barra sulla giusta rotta in mezzo ai marosi degli incidenti di percorso. La solidità della scrittura è l’unica bussola per non perdersi. In Italia, purtroppo, siamo ancora all’anno zero. Negli Usa già da tempo stanno studiando il successo internazionale di alcune serie tv. Le sceneggiature di questi prodotti per il piccolo schermo sono scritte meglio di quelle per il cinema perché la filiera di controllo è diventata più lunga e professionale. Una consapevolezza che tarda ad imporsi da noi dove le decisioni sui nuovi film spesso vengono prese solo sulla base delle concitate esternazioni dell’ego esagitato di qualche autore divenuto famoso troppo in fretta. C’è infine il tema dell’interazione fra i settori diversi dell’audiovisivo. Mentre nel resto del mondo tv, cinema e web hanno imparato già da tempo a convivere, in Italia non esistono neanche i presupposti legislativi perché le riforme del settore (tv, cinema e web) possano essere esaminate ad un tavolo congiunto. Qualche passo in controtendenza lo ha compiuto Roberto Cicutto (alla guida di Cinecittà) e ha convinto il Ministero dello Sviluppo Economico ad occuparsi della promozione del cinema italiano all’estero come volano per l’intera economia nazionale. La strada però è ancora lunga. Il Mibact ha competenze nel cinema ma la sua funzione istituzionale è quella della tutela e della conservazione del patrimonio culturale del Paese. Il cinema invece è un’industria viva, non un oggetto da museo. Ripartiamo da qui.

Pubblicato su Area di settembre 2014

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