L’uomo che adesso vuole occupare Wall Street un tempo la occupava davvero. E senza neppure aver avuto bisogno di andare all’assalto dalla piazza. O di svernare nel parchetto lì di fronte come i ragazzi che da un mese hanno risposto al suo appello. Macché. Kalle Lasn nel mondo di Wall Street ci sguazzava da padrone. Anzi. Di quel mondo era l’espressione che gli “antagonisti” come lui oggi considerano peggio: era infatti un grande boss del marketing. Impacchettava le ricerche sui consumatori ignari e le rivendeva ai capitani d’industria del capitalismo di mezzo mondo. Terziario avanzato, servo dei servi: ma profumatamente servo.Così profumatamente che con tutti quei soldi si mise in testa di girare il mondo.Non che non lo avesse mai fatto. Anche qui: anzi. L’uomo che adesso vuole occupare Wall Street sul passaporto ha più timbri di un pacco postale. Che vita. Che trama. Che passione. Ma andiamo con ordine. La sua creatura si chiama Adbusters. Ricordate i Ghostbusters del film?I cacciatori di fantasmi? Beh, quelli di Adbusters sono appunto i cacciatori di ads: di pubblicità. Cacciatori per smascherarne le bugie e la pericolosità. Adbusters è una fondazione. Ma soprattutto un piccolo giornale canadese. E la protesta “Occupy Wall Street” è nata come una provocazione dalle pagine e dal sito Internet di questa rivista di “culture jamming”: di guerriglia culturale. “Vedremo come finirà nelle prossime settimane”, ammette Kalle a Repubblica. “E pensare che il mio libro `Culture jamming’ è di appena dieci anni fa: quando il boom sembrava senza fine. E oggi invece il sogno della rivoluzione globale sembra trasformarsi in realtà”. Ma come siamo arrivati fin qui? Kalle parla di sogni ma la sua vita comincia come un incubo. L’uomo che vuole distruggere il capitalismo nel Terzo Millennio nasce in Estonia, ovvero piena Unione Sovietica, sessantanove anni fa: nel bel mezzo della seconda guerra mondiale. E quando i russi invadono Tallin i suoi parenti sono costretti a espatriare: in Germania. Meglio nazi che rossi? Che beffa della storia per l’uomo che adesso è diventato il simbolo della nuova sinistra. E anche un imbarazzante particolare che gli verrà rinfacciato quando alcune sue campagne verranno accusate di antisemitismo. Ma c’è poco da fare gli spiritosi. E’ dura la vita dei profughi. Il piccolo Kalle viene sballottolato di campo in campo finché i genitori riescono a rifarsi una vita emigrando in Australia. Il ragazzo venuto dall’Estonia è sveglio e ha uno spiccato senso per i numeri. Si laurea in matematica ma già guarda oltre: ai computer che stanno per trasformare il pianeta. “Il mio primo lavoro fu al ministero della Difesa australiano”, scrive lui stesso in un vecchia autobiografia: “Progettavo i giochi di guerra”. Sì, l’uomo che adesso vuole occupare gandhianamente Wall Street cominciò proprio con l’elmetto anche se virtuale. Ma siamo ancora agli inizi. Ha 23 anni quando decide che è tempo di tornare in Europa. Invece la nave su cui viaggia dall’Australia fa tappa per due giorni al porto di Yokohama. “Mi innamorai del Giappone e non rimisi più piede in mare”. Occhio alle date: siamo negli anni Sessanta e il Giappone è il motore economico del mondo. “Made in Japan” è un marchio di fabbrica e di pensiero. Il capitalismo elevato ai massimi sistemi. La schiavitù del fordismo e l’etica dei samurai. Il boom commerciale e il sistema mafioso della Yakuza. Kalle è svelto a fare di conto e si butta nel marketing che poi ripudierà: “Feci tanti di quei soldi che poi me ne andai in giro per il mondo per tre anni”. Ma il Giappone richiama ancora una volta: anche perché ha il volto gentile di Masako Tominaga, che diventa presto sua moglie. E’ l’amore che gli fa cambiare vita? E’ così innamorato di quel paese che decide di monetizzare tanto affetto: lasciandolo. Con la moglie emigra in Canada e qui comincia la seconda vita: autore e produttore cinematografico. I suoi documentari sulla vita giapponese sono un successo dopo l’altro: naturalmente nei festival “cult”. Titoli ormai dimenticati come “Japan Inc” e “Japanese Women”. Ma a poco a poco sempre più politicizzati. Fino a quel “Caduta e impero della cultura del business americano” che nel lontano e orwelliano 1984 già lascia presagire la scelta di campo. L’America è un’ossessione di Kalle. L’ultimo numero di Adbusters è intitolato “American Autumn”: che sta al contrario della Primavera araba. Gli yankees per la verità sono abituati a vedersi prendere a sberle culturalmente parlando dalle giubbe rosse di turno. Da Marshall McLuhan a Naomi Klein cioè dal critico dei media alla profeta dei no global i pensatori più stimolanti e originali sono spesso arrivati da oltreconfine. Kalle lo spiega con una battuta: “Quando ti addormenti su te stesso, come la sinistra americana ha fatto negli ultimi tempi, un calcio nelle palle aiuta sempre”. Un calcio nelle palle è quello che sveglia anche lui. I suoi bei documentari raccoglievano premi su premi e sfilavano applauditi perfino sulla Pbs: la tv pubblica Usa. Poi nel 1989 l’amaro calice: non c’era più uno straccio di tv che volesse trasmettere i 30 secondi di spot per denunciare la scomparsa delle foreste nel Pacific Northwest. Comincia qui la sua terza vita. Da allora la fondazione Adbusters e soprattutto il suo bellicoso giornale sono la spina nel fianco del modo di produzione capitalistico occidentale a cavallo di millennio: che allungando la barba a Marx potrebbe essere definito appunto come l’impero dell’advertising. Da allora Kalle è l’incubo dei padroni di tutto il mondo. Perfino quando “Occupy Wall Street” era già alla seconda settimana di proteste i media tradizionali qui in America facevano orecchie, è proprio il caso di dire così, da mercante. “I grandi media sono finanziati dalla pubblicità: sono tutt’uno con le corporation. E quando salta fuori qualcosa come questa sperano fino all’ultimo di non doversene occupare: insomma che passi”. Come successe con quel “Buy nothing Day” (la Giornata del Non Compro Niente”) che è un’altra delle campagne globali di Adbusters che dagli Usa si è allargata negli anni a tutto il mondo. La Cnn allora lo intervistò: ma solo per sfotterlo. “La tv è terribile: difficile quando sei lì sotto i riflettori tenere testa a quella gente lì”. Anche per questo l’uomo che vuole occupare Wall Street non ama i riflettori. Neppure quelli della protesta. “Preferisco godermi il successo dietro le quinte. Almeno per ora”. L’obiettivo adesso è la grande mobilitazione globale per il G20 del 2 novembre a Cannes. Ci riuscirà? L’ex esperto di marketing partito dalla Lettonia ha dimostrato di poter andare davvero lontano. Anche troppo. Joseph Heath ed Andrew Potter gli rimproverano anzi di avere già tradito il movimento. In quel “Nation of Rebels” che è la bibbia della controcultura i due professori sostengono che perfino Adbusters sia stata sedotta dal capitalismo. Sarebbe accaduto quando per contrastare l’impero di Adidas e Nike lanciò sul mercato le Black Spot Sneaker: le scarpe sportive autoprodotte e solidali. “Se ci riusciamo” scrisse l’uomo che voleva occupare Wall Street “si tratterà di un precedente che rivoluzionerà il capitalismo”. I conti dell’ex mago del marketing si rivelarono più che giusti. E le scarpette nere si sono trasformate in un altro grandissimo successo: naturalmente di mercato.
I black bloc. Ecco chi è l’ideologo degli antagonisti. Si chiama Kalle Lasn, è nato in Estonia sessantanove anni fa e adesso vive in Canada. Prima di diventare “indignato” si è arricchito proprio nella stessa Wall Street che adesso vuole “occupy”.
Pubblicato: 19 ottobre 2011 in politicaTag:Adbusters, affari e finanza, Andrew Potter, Angelo aquaro, Black bloc, Joseph Heath, Kalle Lasn, La Repubblica, Marshall McLuhan, Wall Street
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